La violenza nel teatro contemporaneo

Il legame fra teatro e violenza è antico e forse connaturato al genere fin dalle sue origini. La tragedia classica mette in scena una violenza governata dalla forma del dramma; questo assume, ritualizza e scioglie nella catarsi le tensioni profonde che lo spettacolo rende manifeste e trasforma in esempi. Per Aristotele, la pietà e la paura sono i sentimenti più forti che il dramma suscita e che inducono alla purificazione finale; entrambe, pietà e paura, sono correlate alla violenza: la prima è suscitata da chi è vittima di atti violenti, la seconda da chi li compie. Ma non sempre la distinzione tra l’una e l’altra condizione è così netta, a maggior ragione nel teatro contemporaneo. Sia perché questo assume e riflette le categorie della psicologia moderna (nel libro si studierà per esempio il dialogo della drammaturga Angélica Liddell con gli scritti psicoanalitici di Erich Fromm); rispetto a queste, anzi, proprio la forma drammatica diventa strumento espressivo privilegiato, e perfino risorsa terapeutica. Sia perché il teatro, come altre forme artistiche, entra in contatto nel Novecento con il tema della violenza abissale nei campi di sterminio: si pensi all’Istruttoria di Weiss. Caratteristica di quel tipo di violenza, fisica e morale, era proprio la perversa capacità di indurre nella vittima il senso di colpa, come ha spiegato con chiarezza Primo Levi ne I sommersi e i salvati. Proprio l’allestimento dell’«oratorio civile» di Weiss realizzato da Gigi Dall’Aglio per il Teatro Due di Parma nel 1983 (e da allora andato in scena regolarmente, in Italia e all’estero), che prevede il coinvolgimento diretto dello spettatore, intensifica la dinamica della fruizione da parte del pubblico, tenuta in conto già nel teatro antico. La funzione esemplare del dramma non riguardava infatti solo l’andamento del testo ma anche la modalità della sua ricezione, che entra in rapporto con l’espressione e il contenimento della violenza. Lo spazio in cui il pubblico si riuniva e il tempo in cui si articolava lo spettacolo (esteso, nelle manifestazioni più solenni, fino a coprire diverse rappresentazioni: nelle Grandi Dionisie ateniesi si allestivano tre tragedie seguite da un dramma satiresco) definivano il cronotopo della comunità, che ricavava dall’esperienza condivisa anche i modelli e gli antimodelli della vita civile. Ad Atene, il teatro era per la cittadinanza, che poteva rispecchiarsi nel personaggio collettivo del coro. La dimensione della comunità entrava così nella stessa dinamica della drammaturgia, che assumeva un valore insieme morale e politico. Questo connotato resta un elemento di fondo del genere teatrale; pur nelle molte varianti storiche e formali, l’elemento politico è una costante, o almeno un elemento ricorrente, e caratteristico anche delle opere che verranno qui affrontate: per esempio nelle pièces ispirate dai conflitti civili e culturali del postcolonialismo. La violenza tragica è presente attraverso gli attori in scena, che animano conflitti (di natura religiosa o civile, familiare o di genere, etnica o appunto politica) e compiono vendette consumate spesso sul corpo dei personaggi che incarnano il motivo del capro espiatorio: corpi contesi, offesi, mutilati, smembrati. Anche questo è un elemento costante che si rinnova nella storia del rapporto del teatro con la violenza: se ne discuterà a proposito, tra gli altri, dei testi di Agota Kristof. Ma nel mondo antico quella stessa violenza è al tempo stesso distante, proiettata com’è nel tempo e nello spazio assoluto del mito (con l’importante eccezione della tragedia più antica, i Persiani di Eschilo) in cui vivono i personaggi ripresi o ispirati dalla tradizione epica, già noti al pubblico. Proprio la ricorsività dei protagonisti, di Edipo, di Elettra, di Medea e delle altre grandi figure tragiche, contiene un elemento di intertestualità e un tratto di metaletterarietà in nuce che avrà sviluppo e fortuna nel teatro successivo, fino alla contemporaneità, attraverso esiti compiutamente metateatrali. Una volta riconosciuti come ruoli, incatenati al fato che li destina a un esito rovinoso e atteso, i personaggi si rivelano strumenti della violenza, ne sono agiti, e la rendono in questo senso ancora più terribile, inesorabile. Quasi a conferma della forza e della durata del legame fra la rappresentazione della violenza e la tipicità dei personaggi, si ricorderà come le prime rappresentazioni delle opere metateatrali di Pirandello – in cui i conflitti familiari, sociali e di genere sono portati in primo piano con forza lacerante e assoluta – avessero suscitato reazioni di panico tra gli spettatori: come se la compiuta attuazione delle potenzialità metateatrali, con la proverbiale rottura della quarta parete, avesse infranto anche la barriera di contenimento che fino ad allora aveva permesso agli spettatori di partecipare al rito della violenza senza sentirsene fisicamente coinvolti. Alcuni degli esempi discussi nel libro si collocano su questa linea, entrando in relazione anche con i precedenti classici e moderni: autrici e autori tra loro molto diversi per esperienze, poetiche e origini – da Hofmannsthal a Orson Welles, da Aurora Mateos a Griselda Gambaro – avranno in comune, oltre al tema della violenza, la propensione nei confronti della riscrittura o rielaborazione di modelli canonici del teatro e della letteratura. Nel mondo greco, la relativa convenzionalità delle figure (accentuata peraltro dall’uso delle maschere) e la prevedibilità di trame ricalcate, con varianti e digressioni, sui ‘canovacci’ del mito e dell’epos, non diminuiva l’intensità del dramma; al contrario, ne sottolineava l’esemplarità. Lo stesso accade nel teatro contemporaneo. L’assorbimento di personaggi e situazioni ripresi dalla tradizione conferisce al modello un valore allegorico, rendendo cioè le figure note altrettanti emblemi: riconoscibili, trasmissibili, culturalmente condivisi anche per rovesciarli e decostruirli. In questo senso, le costanti che attraversano la tradizione teatrale hanno spesso un valore politico, che si esercita attraverso il richiamo, implicito o dichiarato, fra la rappresentazione e la realtà, fra la vicenda ispirata alla tradizione e le condizioni storico-sociali prossime all’esperienza degli autori e del loro pubblico. Se la violenza, nelle diverse declinazioni e nelle diverse forme sociali a cui il termine può corrispondere, è dunque materia archetipica del teatro, la forma drammatica è strutturalmente e storicamente deputata alla configurazione del conflitto, di quello esterno come di quello interiore e morale. È appunto dalla psychomachia, dal cantico, dalla lauda dialogata, dai misteri che nasce la pre- o proto-drammaturgia medievale. Il percorso di questa tradizione para-teatrale s’incrocia, senza davvero fondersi, con quello del teatro rinascimentale e moderno, che si innesta sulla riscoperta dei modelli antichi; tuttavia, in epoca contemporanea, sarà oggetto di una consapevole rielaborazione proprio come allegoria dei rapporti di violenza e oppressione: si pensi al teatro di Dario Fo (premio Nobel nel 1997), i cui testi, tradotti in molte lingue, sono rappresentati da numerose compagnie nei vari continenti.